Mura e non Muraglia
Il 21 novembre, nella dolce memoria di “Maria presentata al Tempio” la Chiesa celebra la “Giornata pro Orantibus”, un giorno dedicato alla preghiera di coloro che pregano. Per 364 giorni i Monasteri di Clausura, come foreste amazzoniche, fanno giungere sui nostri conti e nelle nostre case ossigeno e aria salubre come offerenti anonimi e noi, in cambio (?) ci impegniamo, per un giorno, a pregare per loro. Si tratta di una restituzione simbolica alla quale pure dovremmo tenere fede. Per chi ritenga la Clausura un residuo medioevale, bisogna ricordare che ci sono nel mondo ancora centinaia e centinaia di Monasteri dove giovani e belle donne sono attratte dallo Sposo a vivere, come sentinelle sul mondo, in comunione con Lui e la Sua Chiesa, ma anche in compagnia di tutti i poveri del mondo che attendono l’elemosina di un sorriso, di una carezza, di un bicchiere d’acqua, di una preghiera. Le grate, che delimitano lo spazio della clausura, sembrano sulle prime le sbarre di un carcere, ma chiunque abbia varcato il portone di un Monastero ha percepito che le stesse grate che per noi rinchiudono e delimitano uno spazio sacro e inviolabile, per chi lo abita è giardino, foresta, città, guglie dolomitiche e riviere di laghi e di mari. Le grate custodiscono un amore e una libertà, sono balconi e non feritoie di celle, si allargano su chiostri silenziosi in cui i passeri e i poveri fanno nido: “Anche il passero trova la casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio” recita il salmo 83. Noi tra le grate vediamo occhi luminosi, e le monache guardano occhi spenti negli infiniti parlatori che sono porti di mare per naufraghi che hanno trovato tanti porti chiusi, noi diciamo senza capire “Poverine!” e loro pensano: “Poverini, perché mai sono tanto infelici pur essendo tanto amati da Dio?”. Le monache di clausura oggi ci ricordano che è possibile amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze e il prossimo come se stessi. I monasteri che sono luoghi in cui la Provvidenza ancora scandisce le giornate e il libro mastro, spazi in cui è possibile vivere senza sicurezze, felici di niente, diventano paradossalmente porti di provvidenza per tanti poveri che girano la ruota e trovano un pane. Anni addietro accadeva alle monache di trovare al mattino, nella ruota, un bambino appena nato e ancora sporco di sangue che una madre anonima, ferita nella femminilità, affidava a chi di maternità ne aveva da vendere. Cosa mettiamo stamattina nella ruota dei Monasteri di Clausura? Tanta paura, morte, sofferenza, comunità parrocchiali disperse, crisi di fede, mancanza di speranza, affanno di carità. Vi mettiamo un bambino che si chiama futuro che non si attacca al nostro petto acido (“i figli chiedevano pane e non c’era chi gliene desse” lamenta il Profeta) e che affidiamo a coloro che, essendo vergini, possono essere madri.
La mia vita di uomo, di prete e di Vescovo è stata punteggiata di tante grate e di occhi così luminosi che bisognava mettere gli occhiali da sole in parlatorio. Ricordo le Monache Benedettine del Monastero San Paolo al Deserto dove Capri si tocca con mano, le Domenicane di Sorrento e di Lettere, le Benedettine di Teano, le Clarisse di Pignataro, le Clarisse di Pietravairano, le Clarisse di Orvieto dove da quasi trenta anni vivono ragazze della Penisola Sorrentina accompagnate dal parroco ancora ventenni, le Clarisse di Serino. Questi menzionati e tanti altri luoghi portati nel cuore sono santuari di una storia e di una geografia spirituale, crocevia di storie, appuntamenti di grazia, attestazione che non c’è spazio angusto che non possa allargarsi a dismisura abbracciando il mondo intero. Ma le mura dei monasteri non sono edificate a difendere dal mondo, ma a collegare, non sono chiusure, ma schiusure, non separano, ma uniscono. Non sono come la grande muraglia cinese che avrebbe dovuto difendere la nazione da invasori e da spifferi di idee e di aria nuova e che oggi costituisce un monumento alla inutilità di quel tentativo. Le mura dei monasteri non sono muraglia, ma mura che traspirano, lasciano passare drammi e lacrime e rendono le monache, come forse nessun altro, contemporanee degli uomini e delle donne di oggi. “La storia non si ferma davvero davanti ai portoni, ma entra nelle stanze e le brucia, la storia dà torto o dà ragione, la storia non passa la mano, la storia siamo noi: questo piatto di grano” canta De Gregori. La malattia, il contagio, l’angoscia, la paura d’essere abbandonati, la depressione, non si fermano, non si frenano infrangendosi come onde sulla scogliera che sono le grate di un Monastero. Faccio memoria di Madre Elisabetta, abbadessa del Monastero del Deserto, di cui, da giovane prete divenni padre, per i vincoli della grazia, pur essendo lei più grande di me: una donna dalle grandi vedute, abbadessa per venticinque anni del Monastero di San Paolo prima a Sorrento e poi a Sant’Agata dove la comunità si trasferì agli inizi degli anni 80 del secolo scorso, donna dalla grande intelligenza e di profonda spiritualità e fede monastica. Sapeva tenere relazioni con preti e vescovi, intesseva dialoghi e manteneva attenzione anche sui temi di più grande attualità. Ma era lebbrosa. Madre Elisabetta di cui ho condiviso la statura spirituale, quando era in una delle crisi periodiche di depressione era capace di piangere per ore come non ho mai visto nessuno in seguito. Un giorno, in un momento di grande angoscia, credendo di avere le ali, cadde dal muro del monastero. Ricordo che Mons. Felice Cece alla celebrazione esequiale parlò di “Grazia tremenda” ricorrendo a un felicissimo ossimoro. Per Madre Elisabetta le mura del monastero non erano servite a preservarla dal male di vivere, erano mura e non muraglia, con le sue lacrime ed il suo buio divenne Madre di tutti i disperati che ritengono a un certo punto di buio la morte migliore della vita. La ricordo oggi e la invoco insieme a tante monache che ho conosciuto e che, attraverso le grate, sono fuggite nell’eternità (Come dimenticare Madre Alojsia di Orvieto?) dietro lo Sposo e tante altre che oggi stanno combattendo la battaglia della vita e della fede. Le raggiungo tutte e le ringrazio a nome della Chiesa e del mondo perché ci insegnano come essere liberi dietro le grate del tempo, felici dietro le sbarre del dolore, colmi di speranza dietro le mura del covid. Solo oggi preghiamo per loro. Gli altri 364 giorni saranno esse a mandarci ossigeno quando ci manca l’aria. La loro è una preghiera bendata perché ignorano il destinatario, è una lettera con solo mittente, non sanno a chi verrà recapitata, non possono far festa per un problema risolto. Potremo ringraziarle solo in Cielo.
+ Arturo Aiello
Vescovo di Avellino