ESSERE CHIESA NEL POST-COVID 19

“Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore…” mi piace iniziare questa riflessione con le parole di Deuteromio 8,2 che introducevano la prima Lettura della Festa del Corpus Domini. Mosè invita il popolo a ricordare, a fare sintesi, a guardare indietro, a cercare di capire in uno sguardo d’insieme. L’insieme riguarda lo sguardo ampio, ma anche quello di tutti in un tentativo di discernimento che mantiene insieme passato e futuro in un presente che è la conclusione di un viaggio, ma anche l’inizio di una nuova stagione che sarà inaugurata dall’ingresso nella terra promessa.

Come Consiglio Presbiterale oggi e, speriamo, poi con una ricaduta nelle Zone Pastorali dove questa ricerca comune può continuare e meglio situarsi, siamo chiamati a… ricordare quello che è accaduto, a leggerlo, a valutarlo, a discernerlo alla luce della Parola di Dio, del nostro essereChiesa (Presbiterio “nella” e “della” Chiesa di Avellino), per capire meglio dove siamo, come ci situiamo in questo contesto, come servire l’umanità e la Chiesa. L’invito e l’impegno a ricordare cozza con la voglia di dimenticare e di voltare pagina che è presente in noi e nella nostra gente; come dopo un lutto o un trauma si ha voglia di pensare ad altro, di non toccare la piaga, di non parlare del morto, di svagarsi dopo essere stati in guerra, a un passo dalla morte, pressati dagli angosciosi comunicati stampa e dalle apparizioni desiderate e temute degli uomini politici e dei virologi che ci aggiornavano sulle mosse del nemico, sul numero dei caduti e dei feriti, sull’orizzonte sempre fosco di un domani incerto.

Certo siamo ancora nel mezzo dell’agone, la guerra non è ancora finita, la partita è ancora in corso, siamo tutti ancora traumatizzati da ciò che è accaduto, eppure un primo tentativo di lettura si impone per noi come uomini, come credenti, come pastori chiamati a dare risposte e a tracciare un cammino possibile per la nostra Chiesa e per le singole comunità. Si impone, dunque, sia pure in maniera relativa e con beneficio d’inventario, un ricordo di quanto è accaduto per capire, per capirci, per riflettere, per tracciare punti di una rotta possibile qui e adesso e non restare in balia delle onde.

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In maniera schematica vorrei indicare i punti di un futuro e più chiaro approfondimento. Cosa abbiamo vissuto?

Noi e l’umanità intera ci siamo trovati dinnanzi ad un nemico potente, invisibile e micidiale che ha messo in ginocchio ricchi e poveri senza poter erigere barriere che potessero difenderci.
Il periodo post bellico, il colera del 1973, il terremoto dell’80, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle, il crollo delle Banche del 2008, sono stati eventi traumatici, ma che interessavano una parte del mondo, un gruppo, una regione…, qui la novità è stata la globalizzazione del contagio.

Nelle situazioni di emergenza indicate sopra c’era possibilità di ricevere aiuto da altri in una gara di solidarietà, qui è stato pericoloso e dunque vietato proprio il contatto che ha chiuso tutti in una clausura forzata riducendo al minimo indispensabile i contatti sociali. Forse mai come in questi mesi siamo stati soli e sospettosi gli uni degli altri. L’uomo e l’umanesimo nati dal Rinascimento, dall’illuminismo, dalla rivoluzione francese, con una fede smisurata nella scienza, si sono sfaldati in pochi giorni provocando una frenata brusca che ha interessato ogni aspetto della vita. La paura è entrata prepotentemente nella mente di tutti e di ciascuno.

La morte è tornata ad essere a tema dei discorsi nel pericolo di ciascuno, nei numeri dei bollettini nazionali e mondiali, nelle immagini di enormi fosse comuni o di colonne militari che esportavano salme.

Nel tempo Covid il morire è divenuto disumano, senza conforti umani e religiosi per i moribondi e i parenti, nell’assenza assoluta di rituali laici o di fede che permettono e sostengono una elaborazione del lutto con conseguenze psichiche che si manifesteranno nei mesi e negli anni avvenire.

È venuta a mancare un’intera generazione di anziani e/o fasce deboli che prelude a un vuoto di memoria nazionale e mondiale ed è tornata all’attenzione di tutti il mondo di coloro che non sono vincenti ma vinti.

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Mentre si attrezzavano gli ospedali-lampo si programmava la scelta di privilegiare, in assenza di posti in terapia intensiva, i giovani a discapito dei sessantenni: eutanasia neppure tanto dolce?
La libertà dei singoli e delle associazioni è stata fortemente limitata, i poteri straordinari concessi agli organi dello Stato nei suoi vari gradi ha visto più di una tracimazione verso forme di intolleranza.

Il “sentimento del tragico”, quello del male che interroga perché si manifesta come pena irriducibile ad ogni giustizia, che era nascosto nelle storie private o nei film di fantascienza, è tornato ad essere esperienza collettiva demolendo la presunzione che mai un evento imprevisto potesse colpirci oltre la nostra capacità di “avere tutto sotto controllo”.

A tutt’oggi il Covid-19 è sconosciuto, non ha un volto con cui interloquire, cui chiedere “il perché?” nel tentativo di capire. “Questa volta il nemico non è nessuno con cui potersela prendere, ma un ottuso ambasciatore del caso. Rappresenta la persistente demenza della materia. Muta escrescenza di una natura senza finalità e veicolo microcellulare della non-volontà, esso si sottrae alla mira di qualsiasi umana indignazione e dei suoi interrogativi di senso. Peggio checolpire l’uomo nel suo corpo, è frustrare il suo congenito bisogno di avere di fronte l’interlocutore dei suoi dolori” (Giuliano Zanchi in “I giorni del giudizio”) come nel dramma di Giobbe.

Una convinzione comune emerge nella fiumana di commenti a caldo sulla pandemia: “un tale inatteso sconvolgimento della realtà ha già l’effetto di mettere alla prova ogni punto della nostra impalcatura sociale e della nostra intelaiatura mentale. Questi sono i giorni di giudizio. Siamo a un collaudo statico che non ha precedenti” (ibidem)

Qualsiasi sarà l’epilogo di questi mesi ancora tutti da comprendere è certo che “nulla sarà più come prima” ci siamo sentiti ripetere da più parti: come tutto ciò ci interpella come uomini e come credenti? Come ci scuote e ci scomoda per il ministero che svolgiamo nella Chiesa? Quanto detto fin qui riguarda tutti indistintamente, ora ci chiediamo: come ha reagito la Chiesa nel suo complesso e poi la nostra Chiesa Diocesana a questo terremoto? Quale sofferenza ha vissuto? Quale aspetto della sua vita è

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stato messo in forse, minato, destabilizzato? Quale dimensione ha rafforzato? Anche qui solo qualche punto per orientare la discussione e la ricerca comune:

La Chiesa che prende nome e senso dal suo “raccogliersi” è stata tra le prime realtà ad essere interessate dai provvedimenti di contenimento emanati dal Governo e toccata, in modo sostanziale, dalla sospensione dei riti e dalla interruzione della sua normale vita comunitaria. La CEI ha dato prova di senso civico non senza accuse, soprattutto dagli ambienti di “destra” che le hanno rimproverato eccessiva condiscendenza ancillare ai poteri dello Stato (vecchia quaestio!).

I Vescovi e i Presbiteri hanno vissuto un iniziale spaesamento, un profondo smarrimento che è andato ad accumularsi ai segnali di crisi già evidenti in precedenza nel corpo ecclesiale. “Anche il sacerdote e il profeta si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare” è apparsa una parola particolarmente espressiva di uno sgomento, una paralisi, un disorientamento che ha preso il cuore di tanti pastori. Senza la comunità e la relazione pastorale, il raccogliersi intorno all’altare e i Segni efficaci della Grazia la Chiesa perde la sua consistenza nelle sue prassi più consolidate.

“Svanisce la religione e al suo posto regna la scienza” ha scritto Marco Politi il 27 marzo scorso. È stata la sensazione inquietante di tanti di noi dal momento che anche ai cappellani degli ospedali è stato vietato l’accesso ai reparti e imposto loro di restare chiusi in cappella. L’unicosacerdozio fisicamente esercitabile è stato quello dei medici e degli infermieri (tra le loro fila si contano molti martiri!) sottoposti ad orari impossibili e a quarantene affettivo-sessuali non conseguenti alla loro vocazione.

Come hanno reagito i nostri preti? Ciascuno con il suo carattere. Alcuni condividendo la paura di tutti si sono tappati in casa, altri, dopo il primo sconcerto, hanno organizzato servizi a domiciliorischiando la vita anche oltre il cordone sanitario, c’è chi ha vissuto una vita monastica aspettando tempi migliori e chi, in un impeto di entusiasmo ha pensato di trasformare la parrocchia –l’espressione è

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di Bernanos- “in altarino del Corpus Domini” amplificando rosari e novene, messe e liturgia delle Ore, alcuni hanno smesso di celebrare in privato ritenendo la Messa monca senza una comunità orante, altri si sono attrezzati con collegamenti in streaming per non lasciare i propri fedeli privi del conforto della Parola, e del volto e della voce del parroco (“le pecore riconoscono la sua voce”), della veduta del “proprio” altare, cosa non del tutto secondaria.

Il Papa Francesco è stato presente come non mai nella vita dei nostri fedeli con l’appuntamento mattutino delle 7.00, ma soprattutto con la preghiera e la Benedizione Eucaristica in Piazza San Pietro, mai così vuota e così piena, sotto una pioggia battente che rigava di lacrime anche il Crocifisso miracoloso e l’icona della Madonna “Salus”. Le sue parole nude e solitarie lo hanno avvicinato al dramma, fatto entrare in ogni casa e in ogni cuore, come l’intercessore che sul monte alza le mani per il popolo in pericolo. Di quella sera riportiamo il monito a gridare insieme “Non ti importa che periamo?” perché non si annidi il proposito di una salvezza privata che non includa anche tutti gli altri.

Il Vescovo, andando contro la sua naturale ritrosia, ha cercato di rendersi presente con le “Lettere dal deserto”, con la diretta televisiva dal Polo Giovani del sabato sera, delle catechesi quaresimali sul Libro di Tobia, del Ritiro del lunedì Santo, del Triduo Pasquale, della recita del Rosario Cattedrale-Montevergine in Quaresima e nel mese di Maggio con un pellegrinaggio virtuale che ha toccato i luoghi mariani di Prata, Atripalda, Paternopoli, Contrada e Fontanarosa. Umili tentativi di aggregare i fedeli intorno alla Parola. Benché alcuni parroci li invocassero, il Vescovo non ha emesso neppure un decreto in questi mesi (altrove sono fioccati con mille divieti) e se ne assume tutta la responsabilità: a fronte di decreti ministeriali e comunicati della CEI, già abbondanti e particolareggiati, ha inteso raccogliere e rispondere ad un anelito di consolazione.

Ringrazio quanti fra voi hanno inventato catechesi e celebrazioni virtuali, incontri di formazione e momenti aggregativi sul web, catene di solidarietà a favore degli anziani e di quanti, senza lavoro, temiamo possano essere sommersi dal livello di povertà. Ringrazio la Caritas

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Diocesana che non ha chiuso i battenti nel pieno della pandemia e si è fatta promotrice di iniziative in prima persona o sostenendo quelle promosse da altri. L’emergenza caritativa, come ognuno di voi ben sa, va ben oltre la solidarietà del momento e guarda con preoccupazione l’autunno prossimo come momento in cui potranno manifestarsi, ben oltre un ritorno virale, in tutta la loro drammaticità, il crollo economico, l’assenza del lavoro, l’aumento esponenziale della povertà.

Che cosa è mancato o è stato deficitario in questi mesi?

Un sentire comune di Chiesa che sapesse dare sapore al dolore, alla disperazione, alla paura, al lutto, alla catastrofe, con una parola di speranza umile e forte. “Non temete, sono Io!”, “Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo!”, “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” e tante altre avrebbero potuto dare, se pronunziate con parresia, un orizzonte di senso all’assurdo non come formule magiche, ma come squarci di speranza.

Una coscienza della nostra vocazione-missione capace di dare una direzione alla “diaspora” delle nostre comunità senza tempio. Avremmo dovuto avere i nervi saldi noi per primi nel reagire al “lutto eucaristico” non con il timbro delle lamentazioni, ma con la lungimiranza di chi, nella bufera, sa trasformare le proprie risorse migliori. “Privato del tempio, nel tempo della cattività e dell’esilio, l’antico Israele aveva innalzato l’edificio (io direi “la bandiera”) della Scrittura e modellato le forme del suo culto domestico, cosciente che in ogni esodo è Dio stesso a seguire fedelmente la sua gente dove essa è costretta ad andare” (G. Zanchi), “distrutto il Tempio dello spazio” abbiamo sentito dire in tanti moduli dal Rabbino filosofo Heschel nella sua opera “il Sabato”, “Israele esule costruì un tempio nel tempo” ed è l’esperienza sinagogale che ha conosciuto anche Gesù nella sua formazione. Ci sono stati dei tentativi in questa direzione anche ben riusciti, ma anziché proporre in maniera ossessiva i nostri riti senza popolo in audio-video, avremmo potuto aiutare i credenti a riscoprire la Parola che costituisce il 50% dell’Eucarestia.

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Il coraggio di riscoprire la vocazione laicale ed il sacerdozio battesimale che, unito alla grazia del Sacramento Nuziale ridesse splendore alla Chiesa Domestica. In questa direzione alcuni di voi hanno offerto schemi di preghiera che potessero animare il Triduo Pasquale in famiglia.

Un sentire la comunione anche nella lontananza fisica, la possibilità di celebrarla in una “coralità” di Presbiterio unito dal pericolo comune e dalla sfida di evangelizzare sempre e comunque. Non èpassato inosservato l’invito a celebrare il Triduo in piccoli gruppi, ma senza grandi adesioni. La morte del papà di Don Tarcisio e di Don Antonio (la morte è stata più morte in tempo di pandemia!) è stata un’occasione da tutti colta appieno? La partenza di Don Salvatore Favati, appena da un mese Amministratore Parrocchiale di Tavernola San Felice, ci ha impoverito tutti, privati del suo buon umore, costretti a condividere con tante famiglie, l’assenza di ogni ritualità del morire in un silenzio assordante. Lo abbiamo accompagnato con la preghiera “bendata”, lo ricordiamo oggi in questo consesso chiedendogli di intercedere per noi che restiamo, in vita e in morte, la sua famiglia. Una umile e fattiva percezione d’essere famiglia come Presbiterio e come Chiesa nel prenderci cura gli uni degli altri superando pretese di autonomia che il covid ha distrutto in pochi giorni. Lo stato di debolezza radicale che la pandemia ha messo in evidenza è la vera condizione dell’incontro che non presume di risolvere i problemi dell’altro, ma è pronto ad accoglierlo nella sua umanità. Non siamo superuomini, ma “erba che spunta al mattino e avvizzisce la sera” (come non pensare al Diacono Picus –lo raggiungiamo nella preghiera- che in un attimo-aneurisma ha visto sull’orlo del baratro la sua bella intelligenza e la sua stessa vita?) e, benché rivestiti di grazia e di gloria, restiamo vasi di creta. Forse è mancata una vera compagnia tra noi preti per lo più ispidi e imbarazzati a condividere le nostre ferite e i nostri fallimenti.

Che cosa ci preoccupa?

Ci tiene in apprensione innanzitutto tutto ciò che angoscia gli altri uomini: la fragilità della vita, una seconda ondata virale, la tenuta del

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nostro sistema sanitario, il crollo economico, la crescita esponenziale della povertà, lo sbriciolarsi del sogno europeo (sono arrivati in soccorso medici e infermieri dalla Cina e da ogni parte del mondo tranne che dai “fratelli d’Europa”!), la ricerca di un potere forte con la ricerca di un nuovo “uomo della Provvidenza”, uno stato di disagio e di nervosismo a fior di pelle che non facilita la relazione a qualsiasi livello.

La difficile ricompattazione del corpo ecclesiale nella visibilità della celebrazione: 1. Quanti di coloro che facevano parte delle nostre comunità oranti torneranno? 2. Quanto il rimando dei Sacramenti favorirà la dispersione già in atto da decenni? 3. Che ne sarà di coloro che erano sulla soglia ed ora per paura o disaffezione si terranno lontani dalle Chiese? 4. Quanto il rito vissuto sul canale favorirà ulteriormente la diffusione di una cristianesimo “fai da te”, senza comunità, in una fruizione “a distanza di sicurezza-comodità”?

Una possibile ulteriore rarefazione della presenza giovanile nelle nostre comunità in cerca di ambienti sicuri (avete il defibrillatore?) e contemporaneamente lanciati per le strade a fare festa, con le mascherine appaiate alle magliette, quasi bandiere, come nel giorno della Liberazione

Una crescita esponenziale delle crisi coniugali a seguito della convivenza coatta degli sposi, dei figli con i genitori: i due mesi di coprifuoco e di “ritorno a casa” hanno rafforzato le coppie salde e messo a dura prova quelle già in crisi che stavano in precario equilibrio mantenendo le distanze e frequentando ambienti diversi. Una possibile crescita anche delle crisi presbiterali a seguito di una perdita di identità (chi sono io se nessuno mi cerca?), di un indebolimento del ruolo per lo più giocato nel rito, di un tempo vuoto che può essere stato riempito dallo studio-preghiera o da altro(?), di una disaffezione al lavoro pastorale dopo una sterminata vacanza (può accadere tra noi quello che inesorabilmente peserà sul mondo della scuola, che pure dovrebbe preoccuparci, dove, nonostante le lezioni in rete, la mente degli studenti esce impigrita dal covid.

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Un aumento delle patologie psichiche a seguito del trauma-covid che, come le radiazioni di Chernobyl, senza una adeguata elaborazione di quanto accaduto, creerà le condizioni di un corto circuito mentale. Una possibile emergenza del bilancio economico dei singoli presbiteri, delle parrocchie (la cassetta delle offerte in fondo alla chiesa piange!), delle caritas parrocchiali, zonali, diocesane.

Come ripensarci come Chiesa nel postCovid?

Solo qualche accenno che apra la ricerca comune. Alcuni ritengono in maniera ottimistica se non superficiale che “usciremo migliori da questa prova”, ma non è per nulla scontato: quanto abbiamo vissuto può renderci più sospettosi dell’altro, incattivirci, farci imboscare, ripiegarci sul nostro “particulare”, acuire la polemica e le settorializzazioni come già sta avvenendo sul piano politico.

La Chiesa è quella di sempre, ma va incarnata in questo momento, è la comunità del Risorto, ma come va impiantata nel “the day after” quando, come nel romanzo “La strada” di McCarthy, il padre e il figlio camminano in mezzo a un mondo distrutto? Come essere Chiesa adesso? Quaranta anni fa, qui, un Presbiterio si chiedeva: come ricostruire le case e le chiese dopo il terremoto? Nel dramma di allora c’era più ottimismo e voglia di fare di quanta non se ne riscontrioggi.

Senza Riti e religiosità popolare ci siamo sentiti persi, ci sembravano liquefatte le nostre fondamenta più solide: come reimpiantare comunità riunite intorno alla forza-debolezza della Parola?
Non sappiamo come e quando saranno sciolti i vincoli della distanza di sicurezza: come puntare su piccole comunità rilanciando i gruppi e le aggregazioni laicali che non hanno perso il loro motivo d’essere? “Sapete prevedere la pioggia dopo lo scirocco, come mai non sapete leggere i segni di questo tempo?”: come avviare, innanzitutto tra noi, una lettura sapienziale della “grazia tremenda” del Covid-19 che, seppure non voluto, rimane “coram Deo”?

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Come ripensare il servizio di animazione per ragazzi e giovani già questa estate? Il Grest 2021 e i Campi Scuola dell’anno prossimo sono già abortiti se adesso non sappiamo pensare, oltre le paure, nel rispetto e oltre le leggi, un servizio ai tanti che non andranno in vacanza.

Come annunciare il primato della Salvezza oltre ogni problema di salute? Il termine “Salvezza” per noi centrale e pronao-prologo di vera felicità è stato del tutto silenziato. Il “politicamente corretto” ha soppiantato la speranza cristiana e la mascherina può aver bendato l’Annuncio della Croce?

Come rinvigorire le ginocchia vacillanti ritrovando una sostanziale unità tra noi oltre le simpatie, una grazia che ci tiene insieme oltre le antipatie, una coralità sacramentale che si esprima oltre le differenze culturali o di opinione, una coscienza di “agire a guisa di corpo organico” che vada oltre il parrocchialismo e le vedute personali? Come è possibile rientrare anche noi tra i “congiunti”?

La pandemia da cui non siamo ancora usciti non ha esperienze analoghe cui confrontarci, ha fermato il mondo, anche quello capitalistico- produttivo, cosa impensabile fino a ieri, ha velocizzato tanti aspetti deboli della Chiesa che si sarebbero rivelati inconsistenti tra dieci-venti anni, ponendoci a un bivio: accompagnare le Chiese d’occidente, e dunque anche la Chiesa di Avellino, in una eutanasia che renda meno ingloriosa e dolorosa la fine, oppure smettere di investire sul vecchio puntando sul nuovo-antico per aprire strade all’Evangelo. Qui è in causa la nostra responsabilità, la nostra volontà di rispondere ad una vocazione nella vocazione, il giudizio di Dio e quello delle generazioni che verranno. A mio modesto parere, il prete, il vescovo, il Presbiterio, che varcherà il Giordano, dopo quarant’anni di dispersioni e divagazioni roccocò, sarà un uomo di Dio, un contemplativo, un pastore appassionato d’umanità, un tessitore di comunione che dentro e dopo ogni pandemia saprà, oltre le parole logore, dire-dare Gesù, non da solo, ma nel respiro di una comunità credente.

+Arturo Aiello

Vescovo di Avellino